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Anna e la Bellezza

Quanta Bellezza esiste nel nostro Paese?

Chi la riconosce, chi la cataloga? Esiste un archivio?

Più me ne vado in giro ‘a caso’ senza obiettivo alcuno se non quello di cogliere occasioni, seguire incontri e lasciarmi trasportare dal flusso, più inciampo in un tale patrimonio che a volte mi manca il fiato.

Come sull’orlo di una sindrome di Stendhal mi sento risucchiare da un abisso pressoché infinito, troppo smisurato per non cedere al perdersi.

E’ primavera e leggo “Il miglior lavoro del mondo. Lo strano caso dell’imprenditoria sociale” di Carolina Bandinelli, mentre viaggio in macchina per raggiungere Genova.

Nel libro 3 casi di imprenditoria giovane e creativa al servizio della società.

Mi piace il punto di vista dell’autrice.
Un misto tra analisi scientifica e incanto rispetto a un fenomeno tutto nuovo: il riadattamento dell’idealismo romantico di chi vuole salvare il mondo alla generazione di precari di lusso che il crack globale dei paradigmi economici e politici sta producendo. Una sorta di risposta ‘altra’ alla tradizionale dicotomia tra attivisti volontari e imprenditori votati al profitto.
Dopo il crollo delle ideologie di qualche decennio fa si celebra oggi ‘magno cum gaudio’ anche la fine degli stereotipi professionali.

Ed ecco a voi quindi ‘gli imprenditori sociali’. Che dell’arte d’arrangiarsi hanno fatto un’opportunità per seguire attitudini ed estro senza scendere a compromessi con la propria etica.

Vado a Genova a casa di una sconosciuta.

Si chiama Anna e mi incuriosisce la sua storia, la sua vita, quello che fa.

Anna è una parrucchiera. Ha un salone nella capitale ligure ma si racconta che più che un negozio sia un incubatore di vita. Una sorta di non luogo sospeso nello spazio-tempo in cui tutto è possibile. Anche che la zingara faccia la messa in piega alla contessa. Che ci siano 20 persone a lavorare, che si viaggi a oltre 100 trattamenti in una sola giornata in un Sabato medio, che si raggiunga quota massima produttività rispetto agli altri punti vendita d’Italia.

Mi affascinano i contrasti.
Quelli spontanei che sanno di vita e sbavature, non quelli predisposti ad arte. E quindi vado a vedere. E’ una storia che ho troppa voglia di sentire, e di poter raccontare.

Quando arrivo la città mi sembra diversa.
Saranno le aspettative a dipingere tutto di attesa, di anticipazione, di fermento.

Passo da Sturla, arrivo in centro e sbuco in una via in cui devo cercare un ‘numero rosso’, chè quelli neri sono i privati e i rossi i commerciali (lo imparerò dopo poco).

Anna mi viene a prendere alla macchina.

E’ bionda, minuta, con un’aria casuale e un incedere sempre saggio, che non corre e non frena. Semplicemente va.

In bocca la sua sigaretta, immancabile scoprirò più tardi, diventata un vezzo più che un vizio, un rituale fisiologico, un gesto naturale, un intercalare della giornata.

Quando entro nel salone l’effetto è l’apertura di un sipario.

C’è un disordine armonico in giro.

E’ venerdì sera e si sente nell’aria la voglia di fine settimana.

Conosco subito Francesco. Amico, collaboratore, socio di Anna.

Bellissimo e impeccabile, autentico e sfrontato. Un principe da passerella con la battuta sempre pronta.

Poi arriva Andrea, 17 anni, figlio di Anna.

Non ha mai neanche pensato di fare il parrucchiere ma gli viene. E anche bene.

E quindi è passato con un suo amico e il suo kit personalizzato da barbiere per fargli i capelli.

In realtà lui ama il rap. Scrive canzoni e adesso sta preparando il suo nuovo CD.

Saluta la mamma e si poggia in una postazione a ‘tagliare’.

All’altro angolo, un’anziana signora, distinta, coi capelli bianchi laccati, si fa fare le mani.

C’è chi va, c’è chi viene, ‘ora arriva Lucio’, ‘ma domani ci sei anche tu a pranzo?’.

E’ tutto uno scorrere, senza controllo, senza forma apparente.

Passa ‘quello della carne’ a lasciare l’agnello da cuocere a Pasqua.

Lascia detto di ricordarsi di metterlo in frigo e soprattutto di prenderlo a chiusura.

Mio figlio si appisola sul divano. Un sofà bellissimo che sembra uscito da una mostra di design.

Anna mi spiega che viene da un campionario di artigianato artistico che aveva nel suo concept store due metri più in là, ora chiuso.

Il portariviste è rivestito di una coperta grezza, come quelle delle carceri. Sopra anni di mode portate nei capelli accatastate in fascicoli rigorosamente in disordine.

C’è un’operosità bellissima, un’aria di casa, un senso di vita affascinante, un’inerzia efficace, una semplicità democratica.

Forse è per questo che ci vengono massaie e riccone.

Il fascino universale della verità.

Ora questo concept store lo voglio vedere.

E Anna non dice no ovviamente.

Si apre un altro mondo.

Altro sipario, altra quinta.

Il retroscena anzi di un’opera lirica mastodontica rivisitata in chiave contemporanea.

Ci sono statue, cristalli, lampadari ottocenteschi, manichini riversi su poltrone preziosissime.

Le luci dello stanzone in penombra creano un gioco di riflessi meraviglioso.

Una sezione intera è dedicata all’abbigliamento.

Disegnato e cucito in pezzi unici secondo una ricerca espressiva di morbidezza e carattere.

Cashmere purissimo, i colori della terra, cappotti con lo strascico, giacche asimmetriche, maglie stampate.

Un universo di creatività messo in stand by ma ancora magnetico.

Il tempo di fare un giro e dall’uscio lasciato aperto sono già entrate 2 avventrici interessate ad acquistare.

Anna accoglie anche loro.

Non ha mai fretta, non ha mai il no di chi ha già deciso.

Mi fa vedere le riviste in cui sono citati i lavori di Mario Sturlese, che era suo partner in questa avventura.

Tutto dura, tutto rimane vivo. Tutto ha un inizio e tutto ha una fine, che però qui sembra più una trasformazione. Niente lutti, niente rotture. Un flusso che segue e va dove deve andare anche quando cambia direzione.

Mentre usciamo scopro che di saloni a Genova Anna ne ha due.

Mi dice che uno è ‘nei vicoli’.

Il quartiere popolare del centro storico, adiacente al porto e come da tradizione un po’ sudicio e pericoloso. Quello delle puttane e dei ladruncoli insomma, dove non andare di notte se sei un turista.

Anna mi porta anche lì.

Mentre camminiamo per via Garibaldi mi racconta la sua storia.

Con tante interruzioni devo dire perché la fermano tutti, la conoscono tutti, la salutano tutti. Sembra che passi il Papa.

Non elargisce benedizioni ma anche un po’ sì.

Perché quando Anna ti chiama lo fa usando ‘gioia’ o ‘amore’.

E un po’ di pace ti arriva subito. Dentro.

Quando era piccola non le piaceva studiare e faceva disperare la mamma.

Ricorda che amava solo disegnare, e una volta vinse il premio come miglior disegno della scuola. Si vede che ne ha un ricordo vivido, perché sorride, muove le mani. Lo vede ancora.

Le chiedo allora come ha iniziato a fare la parrucchiera e lei mi spiega che verso i 16 anni disperata per la sua resa scolastica e la sua indomabilità la mamma la mandò nel salone di una cara amica implorando di ‘tenerla a bada’ almeno quelle ore da apprendista.

Ovviamente, manco a dirlo, lei non sviluppò alcun interesse per l’arte della capigliatura di primo acchito e iniziò a fare la latitante.

Sennonché, un giorno, per caso, la titolare fa ritardo con i clienti in attesa.

E quindi Anna che fa?

Li fa sedere ad uno ad uno, chiede loro cosa vogliano, prende le riviste per cercare immagini di riferimento. E le rifà.

Sì. Si mette a riprodurre i tagli e le pieghe delle riviste in un esercizio quasi scultoreo.

Anna disegna in realtà.

Come quando a scuola prese il premio.

Solo che lo fa sulla testa della gente.

E le viene bene.

Le viene naturale.

Senza tecnica, senza metodo alcuno, senza spazzola addirittura a volte.

Solo con le mani.

Mi viene da ridere.

Non riesco a credere alle mie orecchie.

Sono arrivata da poche ore e mi sembra tutto il dipanarsi di un lungo bellissimo racconto.

Di un racconto sull’arte, quella di vivere, quella di cogliere, quella di accettare, quella di trasformare.

Arriviamo al secondo negozio, più ‘barber shop’ e dedicato ai giovani.

Gli interni sono bellissimi, come i ragazzi che ci lavorano, che sembrano usciti tutti da un post di The Sartorialist.

Una ragazza ha le labbra rosse fuoco e i lunghi capelli lucidi. Si muove veloce tra lo specchio e i cassettoni dei colori.

Anche qui quando entra Anna tutti si accendono.

Tutti hanno qualcosa da dirle, qualcosa da offrirle, un abbraccio da rubarle.

E’ una specie di danza, di cerimoniale, avvolgente anche solo se lo guardi.

E quindi me ne sto per conto mio, a scattare foto ed osservare. In silenzio.

Mentre inquadro l’entrata mi accorgo di un movimento tra i cappotti del guardaroba.

Ne esce dopo qualche istante una vecchina, tutta arruffata, un po’ ricurva, che prende un gran cartone ed esce.

Mi si avvicina un ragazzo e mi fa: ‘quella è l’ambulante che fa sempre la sua bancarella qua davanti. Vende chincaglierie, oggetti di fortuna scovati in casa. Sta sempre col suo cagnolino, ci sta simpatica e allora l’aiutiamo tenendole ‘gli attrezzi di lavoro’: li deposita qui in negozio e li allestisce ogni giorno’.

Non ho tanto da dire.

Ho solo questo sorriso che mi continua dentro anche quando sulle labbra non c’è.

E poi infondo non c’è molto da argomentare.

Salutiamo ed uscendo, senza metterci d’accordo, io e Anna andiamo dalla vecchina.

Io compro un paio di orecchini eccessivamente vistosi. Rivestiti in tessuto ma ormai ingialliti. Serve una cotonatura anni ’80 per metterli ma non m’importa. Do i 10 euro alla signora.

Anna altri 10. Non ha comprato neanche gli orecchini.

Mentre torniamo all’altro negozio mi fa vedere ‘i vicoli’.

Che ora sono cambiati. Sono diventati trendy e pieni di negozi vintage e bar per gli aperitivi.

Ven e Sab sera è un must venire qui. Si fa tardi, si sbevacchia, ci si incastra nel passeggio serrato di queste strade buie e strette. Sgarrupate come si direbbe più a sud.

Ven e Sab sera porto franco.

Gli altri giorni meglio ancora non venirci.

La vita e la morte che ballano insieme per qualche ora in un temporaneo armistizio.

Per poi tornare a dividere due mondi.

Ma solo per chi ha paura.

Che poi infondo fine e inizio sono solo due prospettive di un lungo, interminabile, cambiamento.

E i coraggiosi lo sanno, e camminano sereni sul crinale di forma, regole e costumi senza curarsi di niente se non del viaggio che vogliono godersi. Come Anna.

 

Ormai è sera.

E’ ora di andare.

Domani è Pasqua.

Ci vediamo a pranzo.

 

Quando arrivo a Bogliasco stento a crederci.

Insomma io da qui ci sono già passata.

Ma a riprova che la Bellezza esiste ma sta negli occhi di chi guarda accorgersi di lei, beh ecco, io non mi ero accorta di niente anni fà.

La scogliera è impressionante. Il mare un olio tiepido sul cuore. Questi palazzi incastonati a picco, con le loro facciate colorate e popolari come in un carnevale di vita, piatti buoni da mangiare, frasi in dialetto e panni stesi. Senza soluzione di continuità dai vicoli di ieri sera. Però affacciati sull’infinito di questo golfo.

Siamo a 10 minuti da Genova.

La casa di Anna sta rannicchiata in un porticciolo.

Quando apro la porta mi accoglie una tavola bellissima. Apparecchiata di bianco e di blu. Con tante sedute, tante storie, accostate rigorosamente ‘per caso’.

Conosco Mario, cuoco per passione, messo ai fornelli nelle occasioni importanti, ma più che una tortura mi sembra per lui sia un piacere.

E poi ci sono amici, colleghi, e quasi sconosciuti come me.

Il trionfo della ‘Pasqua con chi vuoi’.

Solo che io non riesco a chiudere la bocca dalla meraviglia.

Casa di Anna è come la storia di Anna, come il salone di Anna.

E’ un viaggio di libertà, di accoglienza e di autenticità.

Armoniosamente in disordine.

Di posti ne ho visti un po’, ho visitato qualche luogo insolito, sbirciato musei, riviste e opere d’arte.
Ma mai nessuna casa privata mi ha fatta sentire così.

Qui c’è arte in ogni angolo. Ma quella che piace a me. Quella fuori dai palazzi istituzionali, dai luoghi preposti, dai mausolei della Cultura con la C maiuscola.

Qui c’è l’espressione spontanea, il divenire, la reinterpretazione della realtà attraverso i filtri dell’estro e della creatività.

Il tutto appoggiato lì, com’è venuto, senza troppo pensiero, senza troppe sovrastrutture.

Io sono terrorizzata dal fatto che i bimbi possano rompere qualcosa.

Ma ad Anna non importa, mi dice di lasciarli stare. E infatti li lascio stare. E non succede nulla. E Anna neanche guarda. Sale in cucina a controllare le cotture e io devo stare attenta a non inciampare in Tarta e Ruga, le testuggini liberate che girovagano per il salone.

‘Questa casa dovrebbe stare su qualche rivista di Design’ osservo.

Anna mi risponde che sono anni che la corteggiano, ma che a lei non interessa.

Mangio cose buonissime.

I Testaroli col pesto fatto in casa, un primo piatto della cucina povera con questa pasta cotta sulla pietra come una grande piadina e poi tagliata in scampoli.

La Panissa, fette di farinata di ceci fritte.

Il Capòn Magro, ‘magro’ perché riservato ai giorni di penitenza della quaresima, oggi molto ricercato e a base di pesce e verdure.

E poi l’agnello, i carciofi, la focaccia con le cipolle della panetteria di fiducia.

E oltre alle cose è bello il modo di mangiarle.

Mi piacciono questi pranzi tirati per le lunghe.

Che ti metti a tavola senza orologio e ti ritrovi che è sera.

Ogni tanto qualcuno si alza. Le sigarette sbuffano sul muretto di fronte, vista golfo.

Poi si ricomincia. Un pezzetto di cioccolata, una grappa di quelle potenti fatte con le ricette tipiche, la tovaglia che non si toglie, piena di molliche e tappi, e bicchieri a metà.

Ascolto la storia di questo appartamento.

Tre sono le passioni di Anna. I Galli, la Cristalleria, i Tessuti antichi.

Mi raccontano che c’è una stanza dedicata a lenzuola di lino, tovaglioli, merletti. Talmente piena che ora si apre appena la porta e per il resto si può solo scavalcare la montagna di bianco che riempie tutto.

S’è fatta ora di andare.

Non so bene ancora perché sono capitata qui, ma mi piace.

Si torna a casa.

Finisco il mio libretto sull’imprenditoria sociale. Ripenso ad Anna e al suo concept store in stand by; me la immagino rimandare disinteressata a tempo indefinito questo servizio fotografico per un’importante rivista.

E allora connetto i puntini.

Quanta Bellezza esiste nel nostro Paese?

Tanta, infinita, sommersa.

Pulsa a prescindere e compie in silenzio la sua magia.

Per questo certe volte bisogna alzare la testa dalla teoria, uscire dai percorsi predefiniti, partire dal basso, lasciarsi portare dal caso, spiare la vita che odora di gente e non di museo, fermarsi per cogliere.

Magari Imprenditoria Sociale, Arte e Bellezza potrebbero essere accanto a noi.

06/06/2016

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