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La cosa che mi colpisce di più in questa frenesia EXPO 2015 è il sottile file-rouge delle opportunità mancate, che ha dell’incredibile, quasi del grottesco.
Due anni a parlare del baraccone degli appalti, degli scandali politici, dei ritardi infrastrutturali, dell’impatto ambientale e urbanistico, del toto apre-non apre, ja fà-nun ja fà, delle potenzialità sull’indotto economico e turistico. Due anni prima della vigilia e chissà quanto altro tempo ancora da qui all’esaurirsi di questa cometa. In tutto ciò io aspetto. Tranquilla tranquilla, che qualcuno mi picchietti sulla spalla e mi risvegli da questo stato comatoso da bulimia di informazioni inutili, per richiamarmi all’ordine e cominciare a parlare delle cose serie.
Tipo senti. Questa è l’Esposizione Mondiale sul Cibo. Ora concentrati perchè discutiamo delle politiche agroalimentari globali, del problema del fabbisogno dei paesi in via di sviluppo, dell’allocazione delle risorse, della governance assente di un’industria insostenibile e dell’educazione alimentare e le sue relazioni con la salute pubblica nelle società progredite. Eh? Che ne dite? Mi succederà? Vabbè io aspetto.
Intanto però mi vado a vedere una bella mostra ai Musei di Traiano che si chiama ‘l’Eleganza del Cibo’ curata da Stefano Dominella, perché di bellezza voglio vivere e con la bellezza consolo in genere le brutture viste con gli occhi, anche quelli dell’anima.
Parto gioiosa e contenta. E dopo aver letto l’introduzione del sindaco Ignazio Marino al volume dedicato all’esposizione e in vendita presso il bookshop del museo sento di aver fatto proprio una buona scelta.
Coco Chanel e Feuerbach citati nei loro impeti di sostanza, verità, vita.
‘La moda non è qualcosa che esiste solo negli abiti. La moda è nel cielo, nella strada, ha a che fare con le idee, il nostro modo di vivere, con che cosa sta accadendo….’
‘L’uomo è ciò che mangia’.
E poi parallelismi seducenti tra il connubio moda-cibo nell’Antica Roma, origine di un bel vivere che portiamo dentro come fosse un gene, e nella contemporaneità del Made in Italy nel mondo.
Eppure quando finisco il mio giro mi manca sempre qualcosa.
Anche qui quella sensazione di anello mancante.
Di sillogismo illogico, di equazione forzata, di evidenza troppo sottintesa.
Possibile che una mostra che nella capitale si prefigga di fare da eco alla portanza culturale dell’Expo 2015 sotto il titolo ‘L’Eleganza del Cibo’ mi debba proporre le borse con le ciliegie di Vuitton? O i foulard Gucci a tema selvatico? O un monumentale campionario di stoffe a pattern gastronomico?
Io dico ma è possibile che sia tutto qui?
Possibile che si possa immaginare, sognare e ambire a qualcosa di più che sistematicamente non viene?
Tranne una sporadica reverenza a pezzi sartoriali di stile e fattura d’altri tempi (come gli abiti Dior o il tailleur Valentino), e alcuni esempi di originale schema poetico ispirato ai colori, alle forme e ai paesaggi della natura alimentare (penso a Etro, ad Agata Ruiz de la Prada, a Ken Scott o agli scatti della stilista coreana di Yeonju Sung) tutto il resto sembra una cucitura, una toppa, un orlo a mantenere legati due mondi estranei.
Perché nell’unico contributo video disponibile che presenta la mostra mi deve bastare sentire che ad Antonio Marras piace la mozzarella? O che secondo la prestigiosa blogger new-yorkese ‘mangiari bene e vestiri bene sono dui cosi molti importanti della nostra vita di tutte i giorni’?
Perché?
Perché la testimonial filiforme deve gironzolare mordendo voluttuosamente un intero spicchio di mandarino, pensate, addirittura uno (sempre che non lo sputi a telecamera spenta) tra gli scaffali di Eataly mentre il voice over inneggia a un cambiamento radicale nell’epopea delle taglie zero che non vedo assolutamente?
Perché questa mostra non ha colto l’unica opportunità che aveva per affermare e divulgare un nuovo, sano e sacrosanto senso della bellezza che nel territorio moda-cibo affonda la sua colonna portante, la Cura del Corpo?
La Cura. E il Corpo.
La Cura come intenzione. La Cura come attenzione. Come fine che eleva lo sfamarsi ad arte e amore per sé e per gli altri. Che trasforma l’abito in espressione creativa di sè.
Il Corpo come linguaggio. Come identità. Come tesoro da custodire, da rispettare, da mettere in comunicazione col mondo in maniera equilibrata, sana, piena.
Perché se i sapori del globo sono motivo di confronto, ricerca e arricchimento per Expo non si è guardato a come questa dialettica venga vissuta nelle altre culture, in un salvifico slancio di relativizzazione e buon senso?
Perché se anche l’accostamento doveva rimanere così didascalico non si è cercato di guardarlo in una chiave innovativa, dando spazio ad esempio ai contributi dei designers emergenti di cibo e moda cui dovremo affidare il patrimonio del Made in Italy nel futuro?
E se proprio nel passato si voleva rimanere, perché non si è coraggiosamente parlato della quintessenza di questo tanto millantato Made in Italy, glorificando le tradizioni, promuovendo la cultura delle tipicità, educando con gli esempi integri di catena del valore italiano?
Aveva ragione Elsa Schiaparelli.
‘Un abito non è solo stoffa. E’ un pensiero. E il vestito perfetto che resiste alla moda e alla vita è solo uno: il vestito della libertà’.
Ma la libertà di pensiero costa coraggio. E il coraggio è una scelta faticosa.
Quindi per questa volta mi limito a sperare che questo sia l’incipit di un grande cammino di cambiamento e scelta.
Avanti tutta. Mai come ora è d’uopo un laconico e maccheronico, ‘very bello’!
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